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Articolo apparso su Artribune del 2 maggio 2020


Le mie parole, lo so, valgono poco. Non ho mai avuto credibilità forse perché gli artisti, in generale, fuori dal loro ambito specifico (e comunque con grandi riserve), non ne hanno quasi mai…

…D’altro canto, per quanto riguarda l’arte, poi tutti si sentono liberi di poter dire la loro. E se è vero che l’arte travalica, o almeno così dovrebbe essere, l’artista stesso che la genera e le sue stesse idee (in quanto l’arte eccede la parte cosciente razionale per acquisire nuova consapevolezza), è anche vero che noi artisti viviamo la realtà e pensiamo la vita anche al di fuori di un mero ambito creativo.

Come persone “diversamente” sensibili sentiamo, percepiamo, viviamo. E quel che accade ci tocca, accarezza o ferisce in maniera profonda.

Esattamente come qualsiasi altra persona e allo stesso modo con il quale desideriamo che la nostra opera possa aprire le porte di un nuovo mondo a chi la guarda, a volte non solo vogliamo, ma abbiamo la necessità di trasferire il nostro pensiero. Purtroppo, attraverso l’esperienza del lavoro, ci siamo abituati a non essere ascoltati o compresi, come puntualmente accade quando mostriamo la nostra opera. Ne deriva una frustrazione enorme e che nel tempo si incancrenisce fino ad apparirci quasi fisiologica.

Per noi dare un senso a quel dolore coincide con il tentativo di tornare in quello stato di grazia che la creazione, nella sua bolla atemporale, ci concede. È per questo che quando leggo che l’arte dovrebbe risanare il mondo, o meglio quando leggo che c’è chi strumentalizza l’arte, secondo principi anche buoni e condivisibili, mi si forma un nodo in gola.

Quando leggo che l’arte dovrebbe perdere la sua visione individuale, ovviamente considerata egoistica, a favore di una visione sociale, comprendo che siamo un’altra volta di fronte a un errore madornale. A ben vedere, questa logica non fa altro che parafrasare il pensiero che in questo periodo ci propongono di continuo e che afferma una presunta scissione tra bene personale e bene universale (o superiore). Personalmente ritengo che un bene superiore che non contempli il bene personale e viceversa non possa essere veramente bene.

….

Quindi, tornando al discorso sul futuro dell’arte, non credo possa esistere una separazione tra individuale e sociale in quanto è attraverso l’espressione libera e sincera dell’individuo che, quel valore, quel plus di valore che l’arte è, può interessare anche la società.

 

Individuo, arte e società.

Interesse non significa necessariamente condivisione: significa lasciare all’arte la possibilità di aprire una finestra al pensiero, all’immaginazione, al desiderio. E questo può avvenire anche di fronte a qualcosa con cui non siamo d’accordo. Anzi, a volte è proprio grazie a un contraddittorio che possiamo tornare a comprendere e riappropriarci dei valori o dei desideri che ci costituiscono.

Un’arte sociale che sorpassasse le esigenze dell’individuo che la genera, un’arte che si prefigga lo scopo di essere simbolo di qualcosa e che non nasca dall’esigenza intima e sofferta dell’essere in quanto tale, corre il rischio di diventare puro strumento illustrativo o divulgativo di un pensiero condiviso a maggioranza, quindi, per forza di cose omologato e accomodante. L’arte che cerca il consenso, nel cammino forzato del compromesso, perde la sua forza e verità trasformandosi in qualcosa che arte non è.

Per quanto mi riguarda e per quanto so con certezza che riguarda moltissimi altri artisti, scrittori, ecc., non ho mai inseguito comodità e accondiscendenza. O meglio, l’ho fatto (mea culpa), ma ormai son anni che fisicamente mi rifiuto accettandone le conseguenze a volte tragiche nel tentativo di resistere a un mondo che va in direzione opposta.

Quello che continuo a cercare è un confronto vero, leale, tra quello che sono io come individuo e ciò che accade sia esternamente che internamente alla mia persona, perché, se è vero che non posso avere una esperienza del bene universale, è altrettanto vero che io sono relazione con il mondo in senso totale. La realtà che viviamo non è solo quella esterna a noi, ma anche quella interna, quella dello spirito (visto come vento che ci fa essere nel presente in relazione con l’eternità), e che ci fa essere “essere totale”.

Detto questo, l’arte e la cultura non si aiutano cercando di veicolarne il significato, bensì riponendo fiducia, stimolandone economicamente la discussione e la produzione.

Noi ormai sappiamo che è finita. Quel poco di mercato già disastroso e che ci consentiva un margine ormai limitato di libertà e di pensiero si è definitivamente esaurito. Sappiamo che le fatture emesse non verranno saldate e che usciti dal tunnel del lockdown saranno pochissime le persone ad avere il potere acquisitivo sufficiente per comprare arte. E non compreranno di certo noi: quell’economia si riverserà nel mercato VIP assecondando un processo in atto già da anni. Nonostante la fine che mi aspetta e che può essere ai più secondaria in quanto non sono e non son mai stato un artista importante indipendentemente dalla qualità o meno del mio lavoro, la mia riflessione verte su un altro aspetto: senza tessuto culturale, filosofico e artistico il pensiero finisce. Voglio dire che dagli albori dei tempi l’essere umano ha avuto la necessità di pensare, di conoscere e di comunicare la realtà.

L’uomo non è tale in quanto macchina produttiva, ma in quanto capace di cercare la bellezza, pensare l’universo, osservare e immaginare la realtà. Questi processi, solamente umani, sono la conseguenza diretta di un pensiero che spinge la conoscenza dall’oggetto al soggetto per superarli entrambi in uno slancio metafisico e creativo.

Affinché si possa generare capacità di pensiero e di discussione su il tutto che la vita è e che questo possa piano piano dare ai nostri figli la possibilità di ricostruire un mondo più adatto alle loro vite e all’essere umano in generale; dove non un “bene” ma la felicità e l’espressione individuale si possano realizzare e trovare un ambiente idoneo dove esprimersi. …

Dove vi sia uno sguardo attento alla terra che ci ospita o dove finalmente si possa affrontare una discussione sulla centralità o meno dell’essere umano nell’universo con uno sguardo più ampio di quello egoistico contemporaneo nel quale l’unica cosa che importa è la sopravvivenza. Dove si possa riaprire un dialogo sul senso stesso della vita e della morte che ne è parte strutturale e fondamentale e che, prima o poi, dovremo guardare in faccia e accettare. Perché è solo grazie a lei, la nostra fine, che l’essere umano ha costruito grandi cose.

Un mondo dove, spero, possa esserci rispetto per le libertà individuali in armonia con una visione globale, dove si possa avere fiducia nella comprensione delle persone e uno sguardo intelligente nella lettura dei dati che la realtà ci offre. Un ritorno, dunque, alla visione.

Non solo quella concreta e presente: una visione che sia in grado di superare il tempo e lo spazio grazie al desiderio e all’immaginazione.

 

‒ Paolo Maggis


Paolo Maggis

http://www.paolomaggis.com

Paolo Maggis (Milano, 1978), pittore formatosi all’Accademia di Belle Arti di Brera, vive e lavora a Milano e Barcellona. Ha esposto in gallerie private in Italia come all’estero e partecipato in mostre pubbliche in spazi museali tra cui Palazzo Forti a Verona, Palazzo Collicola a Spoleto, Fondazione Sandretto Re Rebaudengo a Torino, Fondazione Cini a Venezia, Klinger Forum a Lipsia, Osthaus Museum a Hagen, Serrone di Villa Reale a Monza. Su di lui son stati pubblicati vari libri da editori come Skira, Silvana Editore, Carlo Cambi, Zel Edizioni e nel 2018 ha pubblicato con Samuele Editore il suo primo libro di poesie “Il nome di Dio”.

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